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Il giusto e la giusta. Processi della differenza o della santità - Stefania Tarantino

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Recentemente mi è capitato di imbattermi in un libro di uno scrittore e filosofo argentino, José Pablo Feinmenn, che narra la storia di un allievo di Martin Heidegger, Dieter Muller, che dopo essersi reso conto della portata immensa delle sue azioni e delle sue non azioni legate al crimine del nazionalsocialismo, si toglie la vita. È la lettera di un padre ad un figlio, è la parola di un padre, di un “efficiente” professore di filosofia al suo unico figlio, che giustamente avrà lo stesso nome di quel Maestro che in gioventù ne aveva orientato la vita. È una lettera non solo indirizzata al figlio, ma anche a quel Maestro di cui era stato discepolo. Una di quelle lettere che restano mute, che trattengono il dolore dentro di sé e un silenzio che non si può rompere, neanche attraverso il gesto estremo del suicidio. Ogni silenzio in fondo è diverso da un altro – questo lo sanno bene i musicisti e i poeti che fanno del silenzio, delle pause, un momento musicale a sé, di espressione pura non intaccata nemmeno dalla parola o dal suono –, ognuno di essi indica la strada che irrimediabilmente dobbiamo percorrere. Il corpo è il luogo degli eventi estremi; alle domande gettate sugli abissi seguono silenzi insostenibili e fisiologicamente intollerabili.

 

Il dialogo è essere amici anche nella polemica, nella distanza. Questa è una di quelle cose che Angela ha impresso dentro di me, come quella che rimanda all’infinito aperto del pensiero per cui ogni donna pensa. Non si è mai soli nel domandare, uno ha l’altro, desidera che l’altro, l’altra dica di sé a partire da sé per andare oltre sé. Solo questo salva una vita e solo questo è il segno dell’amicizia. Eppure, alla domanda finale “che cosa pensa lei di fare?” resta solo quel vuoto che non si può colmare.

 

Ma non è certo del libro che voglio parlare qui, se mi riferisco ad esso è solo per richiamare due analogie che segnano la scrittura di questo mio intervento. La prima è quella della lettera. Anche questa è una lettera senza ritorno, in cui, certo per altre ragioni da quelle della narrazione di Feinmenn, non è possibile avere una risposta. La seconda riguarda una frase che mi ha così profondamente colpita da trasformarsi nella frase chiave di tutto il libro, in una vera e propria idea fissa.

 

“Non c’è il “male” come non c’è il “bene”. Il giusto e l’ingiusto si confondono. La tragedia non è la lotta del bene contro il male o del giusto contro l’ingiusto. È la lotta tra il giusto e la giusta. Creonte e Antigone, Martin: questa è la tragedia, lo scontro fra due legalità vere”.

 

Vorrei partire da questa lotta, ma userò questa citazione solo come pretesto, come chiave di accesso verso questo tipo di tragedia che segna sin dall’inizio la nostra cultura. In fondo, anche Maria Zambrano scriveva che il primo elemento che incontriamo all’origine del mondo occidentale è una radicale divergenza tra l’uomo e la donna. Una divergenza che la santità scioglie nel momento in cui fa dell’amore qualcosa che non ha più bisogno di dire io. Un amore muto, vuoto, senza soggetto, “una povertà più nuda di qualunque non-avere”. Ancora la Zambrano scriveva che l’amore che noi pensiamo dimori nelle sfere più proprie dell’individualità, risulta essere l’aspetto più generico, il meno propizio all’originalità individuale. Un amore che è ansia di generare nella bellezza e che non ha alcuna ragione di parlare di sé. Se c’è una cosa che accomuna Simone Weil e Maria Zambrano è la figura di Giovanni della Croce, il senso profondo della mistica come passaggio verso un fuori di conto che riscopre un nuovo contatto con la materia.

Cara Angela, mi sono chiesta più volte in che senso tu e Lucia intendevate, certo ognuna a modo suo, l’essere sante oggi. Parlavi, leggendo tra le righe nei testi della Weil, di un’estraneità che non possediamo, di cui non siamo portatori, ma che ogni singolarità può raccogliere, di qualcosa che può sempre scomparire o essere soffocato, ma chiunque è un infinito.

Avevi colto attraverso il pensiero di Simone che il soprannaturale è quella porta che si apre sul reale, per scorgere l’infinito che è dentro di noi.

Una modalità di relazione che non sta in nessuna formula, che non è compresa se non come eccesso, che non fa alcun gioco se non quello più pericoloso: quello della creazione, del si estremo, del sentimento opposto a quello del distruggere. Ma per creare bisogna imparare a decreare e a decrearsi, a lasciare spazi vuoti, aperti a ciò che non prevedevamo. Difficile da capire, perché nella nostra storia si distrugge proprio ciò che si ama; tutto inizia dal conflitto tragico tra un padre e un figlio, tra una donna e un uomo. La tragedia nasce dal conflitto tra i più vicini. Non la distanza, la paura di ciò che non si conosce, ma la vicinanza, l’essere prossimo, ovvio, conosciuto, genera distruzione. Se l’amore è possesso, uso esclusivo della “cosa”, del corpo e dell’anima di chi si ama, allora si trasforma nel suo esatto opposto: odio, risentimento, prevalenza di un io su un altro.

Ma la vita di ciascuno è la perla raccolta nella conchiglia; solo qualche volta la si riesce a intravedere per ciò che è, nuda ed essenziale, bianca e trasparente.

Molti si accontentano del guscio che le sta intorno, che la protegge, non vanno oltre quello che vedono. Altri invece, intravedono la perla, la amano anche se sanno che non potrà mai uscire dal suo involucro.

Si sta così, tra la solitudine e la dipendenza dagli altri, tra il silenzio e la parola, tra quello che siamo e quello che vorremmo essere.

Da questa vita che scorre e che viviamo emergono gli insegnamenti più amari ma anche quelli più profondi e leggeri. E tu sei stata maestra di leggerezza.

Si deve arrivare fino al fondo, si deve provare l’impossibile per vedere quel “granello di senape”, quell’infinitamente piccolo che non sono io e non sei tu ma che racchiude entrambe. Si può provare a non avere paura, a vedere finalmente ciò che si può essere. In questo senso mettevi in luce che l’amore impersonale è anche il desiderio che ci prende, entro cui non diciamo no all’essere che saremo. Il proprio fare allora lo si sperimenta e lo si scopre ogni volta di nuovo.

 

 

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